Soliloquio del dolore – 9

Esiste un mondo con Lei e un mondo senza di Lei. Quest’ultimo, nuovo mondo fa paura. È spaventosamente desolato e versa in uno stato d’abbandono. Le strade e le case sono vuote, cadenti, di tanto in tanto si sentono dei crolli. Gli edifici grigi, sporchi, ricoperti da uno spesso strato di polvere, crepati cadono a pezzi e tutte le porte sono murate, condannate. L’aria è ferma, rarefatta, irrespirabile e la luce grigia, sfumata dalle tenebre, come se il sole fosse oscurato da una spessa coltre di fumo che fluttua immobile nel cielo invisibile. Questo mondo abbandonato si trova al limite della terra, ne è il muro e non c’è nessuno oltre a me. È questa l’ultima, dolorosa e desolante meta della mia ricerca, del mio vagabondaggio. Nelle strade deserte incontro solamente degli spettri e il suo è il più terribile. Mi guarda con occhi tristi, umidi di pianto, ricordandomi ciò che è stato e che non sarà più, mai più. Il suo fantasma è vestito come Lei quel giorno, indossa gli stessi pantaloni neri, la stessa camicia bianca e stringe tra le mani la stessa piccola rosa, ma non sorride come sorrideva Lei allora.
Ogni volta che incontro il suo spettro, per quanto mi sia dolorosa la sua immagine, lo inseguo e mi conduce sempre sulla nostra spiaggia, quella spiaggia dove una volta immaginai di passeggiare con Lei mano nella mano. Qui il suo fantasma si dissolve, dopo avermi lanciato un ultimo sguardo disperato e io resto solo con me stesso e il suo ricordo. Allora la nostra spiaggia era bellissima, illuminata dalla luce tenue e dolce del sole al tramonto. Oggi invece è ricoperta di detriti vomitati dal mare in tempesta: rottami di navi e rimorsi, rifiuti e occasioni perse, tronchi morti, alghe fradice e pezzi di sogni distrutti dal naufragio della vita. Allora ci accompagnava il suono delicato e carezzevole delle onde placide, sorridenti, eterne, mentre oggi attorno a me è il silenzio. Il mare si è svuotato, come se non fosse stato altro che un’immensa piscina. Da quando Lei non c’è più si è fermato e alla fine è evaporato. Ogni giorno sono venuto su questa spiaggia ad assistere al triste spettacolo, guidato dal suo spettro. Dov’era il mare, ora avanza il deserto, che presto divorerà tutto. Sarebbe inutile provare ad opporre resistenza e io aspetto, immobile, la fine, ritagliandomi un piccolo spazio tra i detriti, dove potermi sedere. Osservo con occhi gelidi, vuoti, ormai inespressivi l’avanzata dei deserti e attendo di essere travolto, cancellato.
È terribile concepire e scrivere simili parole, credetemi. Sento una voragine nello stomaco, uno sgradevole senso di nausea e come delle vertigini. È il sentimento della fine, che oramai mi ha pervaso completamente, nella testa, nello spirito e nel corpo, e per il quale non esiste rimedio. Tutto è tornato ad essere com’era prima di Lei, vuoto, buio, desolato, ma in una forma definitiva, irreversibile che non avevo mai conosciuto prima e che fa spavento. Non bastava averla incontrata troppo tardi, moglie e madre, era necessario che tra di noi, nonostante le circostanze, nascesse e si sviluppasse un rapporto intimo, profondo, un’affinità spirituale assoluta, e che questo rapporto e questa affinità andassero distrutti. Non sarebbe stato abbastanza soffrire per averla trovata in queste circostanze, vero? Mi rivolgo a te, Vita, mia acerrima nemica. Non sarebbe stato abbastanza, vero? La tua vendetta doveva essere completa, totale, su ogni fronte… Rispondi! Ma la Vita non risponde, è lì che sghignazza, crudele e beffarda. Si è sempre presa gioco di me, mai però con una tale ferocia. Vorrei avventarmi su di lei e picchiarla a sangue, ucciderla con le mie mani, ma a cosa servirebbe ormai? Servirebbe forse a riportarmi Lei? Niente e nessuno può riportarmi Lei, se non Lei stessa, ma Lei ha deciso che è finita, che non ne vale più la pena.
Negli ultimi mesi, nel disperato tentativo di elaborare il lutto (perché per me la nostra separazione è stata questo, un lutto, tanto Lei era diventata importante, necessaria per me e senza che ne avessi la piena consapevolezza prima di vederla), ho ragionato molto sul concetto di fine e mi sono domandato perché essa finisca sempre per sovrastare tutto, per nascondere e addirittura cancellare (può avere questa capacità distruttiva, quando è particolarmente traumatica e dolorosa) quanto di buono c’è stato prima. Non è semplice dare una risposta a questa domanda. Al di là dello specifico contesto psicologico all’interno del quale agisce la fine, il termine di qualcosa, di qualunque cosa alla quale si tenga molto, rivela di colpo all’uomo tutto il dolore fino a quel momento represso e tutta l’atavica impotenza della quale è naturalmente vittima. È quanto spiega Michelstaedter: il dolore, e in particolar modo il dolore della morte, che cova nel fondo di ogni individuo, represso e spacciato persino per gioia, «è nell’opinione e nella bocca di tutti quando è fatto manifesto nei fatti singoli, dove l’impotenza appare causata da una cosa determinata» [48]. La fine rivela all’uomo, con uno strappo improvviso, tutta la sua miseria e per questo motivo è sempre così negativamente sconvolgente. Inoltre ogni fine (la fine di un amore, di un’amicizia, di un lungo viaggio, di un rapporto sessuale occasionale) è un riflesso della morte e la morte ha sempre un effetto devastante sull’uomo che ignora se stesso, la propria insignificanza, la propria inutilità, la propria natura finita. Ogni uomo, salvo rare eccezioni, è Ivan Il’ič davanti alla morte, che gli mostra con spietatezza tutta la falsità, tutta l’inautenticità e l’inutilità della sua vita:

Il matrimonio… era stato un caso, e la delusione, e l’odore della bocca della moglie, e la sensualità, una finzione! E quel lavoro morto, e le preoccupazioni per i soldi, e così un anno, e due, e dieci, e venti, sempre uguale. E più si andava avanti, più si incontravano delle cose morte. Come se fossi sceso da una montagna, immaginando di salire. Era stato così. Per la pubblica opinione io salivo e sotto di me, la vita, parallelamente, se ne andava… E adesso, fatto, muori! [49].

E ancora:

Gli era venuto in mente che quello che prima gli sembrava impossibile, l’idea di non aver vissuto la propria vita come avrebbe dovuto, poteva essere la verità. Gli erano venute in mente certe sue pretese di lotta, appena percepibili, contro quello che veniva considerato buono dalle persone altolocate, pretese appena accennate che lui aveva subito allontanato da sé; gli era venuto in mente che proprio quelle potevano essere giuste, e tutto il resto poteva essere sbagliato. E il suo lavoro, il suo modo di stare al mondo, e la sua famiglia, e gli interessi sociali e professionali: tutto questo poteva essere sbagliato. Aveva tentato di difendere, di fronte a se stesso, queste cose. E d’un tratto aveva sentito tutta la debolezza di quello che difendeva. Non c’era niente da difendere [50].

In queste condizioni, le vostre condizioni, ciò che finisce non è la vita, ma la morte. La vita non c’è più da molto tempo, è svanita con la vostra infanzia.
Nessuna storia va come dovrebbe andare e noi non ci comportiamo mai come vorremmo. Ci accontentiamo del poco che ci viene offerto e tiriamo avanti, fino a quando la fine ci rivela di colpo tutti i nostri errori, le nostre mancanze e il rimpianto diviene insopportabile, un feroce serpente interiore che ci strazia nelle viscere. Io con Lei ho sbagliato moltissimo e ora che non c’è più gli errori hanno assunto una consistenza fisica, materiale, divenendo reali, tanto quanto ciò che è stato. Sono morto quel giorno, sì, eppure da mesi vivo una morte lunghissima, interminabile, che si rinnova ogni maledetto giorno pensando a Lei e alla nostra storia. Accanto al ricordo, fusi in una sola, nuova, terribile realtà, vedo tutti gli errori commessi, cosa avrei potuto, cosa avrei dovuto scrivere, dire, fare in quel determinato momento, come mi sarei dovuto comportare per non avere rimpianti (avrei dovuto essere meno filosofico, meno razionale e più istintivo, più umano). Una tortura quotidiana di cui non riesco neppure a immaginare la fine, quella fine che, in questo caso, sarebbe graditissima.
Quanti di voi stanno bene, quanti di voi sono felici? Quanti di voi sono soddisfatti della propria vita e dei propri rapporti sentimentali e coniugali? Pochissimi. Perché siete degli incoscienti, perché vi accontentate, nella vita e nel pensiero come nell’amore. Incapaci di restare soli per più di dieci minuti e di sostenere il peso della solitudine, del silenzio, della riflessione, del dolore, vi aggrappate come naufraghi al primo essere umano che corrisponde, più o meno, il vostro sentimento, che colma il vostro vuoto affettivo senza porvi domande: mi ama, o almeno dice di amarmi, dunque è l’uomo giusto per me. Il vostro ragionamento si ferma qui. Ma come fate a essere così sicuri che si tratti dell’uomo giusto per voi, tanto da sposarlo e avere con lui dei figli, sapendo che nel mondo esistono altri milioni di uomini e che tra questi potrebbe esserci davvero quello giusto per voi? Perché è così difficile vedere oltre? Ma tanto avete le vostre regole, che vi permettono di rimediare: c’è sempre la possibilità di farsi l’amante e tirare avanti. È troppo facile così. Scappate dalle vostre responsabilità e vi permettete di tutto. Dopo aver trascorso un’ora con il vostro amante, come fate a guardare vostro marito o vostra moglie negli occhi? Come si può essere così ipocriti? Questione di carattere? Questione di coscienza. Vedo troppe coppie casuali intorno a me (io stesso, forse, sono figlio di una di queste coppie) e non è un bene, perché le unioni decretate dal caso generano disastri. È anche per questo motivo che ogni giorno sentiamo parlare di delitti in ambito interpersonale.
Se un uomo sposato, o comunque unito a una donna da un legame stabile non resiste alla tentazione, al puro istinto animalesco, vuol dire che non ama la moglie o la compagna e l’interruzione dell’unione, fondata evidentemente sul nulla, dovrebbe essere per lui un dovere morale. Ma la paura di restare soli è troppo forte e allora si tira a campare dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Non si tratta di bene e male, di morale nel senso tradizionale del termine, ma di autenticità, di coerenza, di consapevolezza, di rispetto della libertà propria e altrui, di spirito di sacrificio, se vogliamo. Ecco, la totale mancanza di spirito di sacrificio è una delle peggiori piaghe del nostro tempo. Viziati da un benessere solo apparente, ottenuto sacrificando la parte migliore di noi stessi, la coscienza, non siete più capaci di rinunciare alle vostre piccole, sciocche comodità e la pandemia lo ha mostrato chiaramente. Siete così vuoti da non saper rinunciare per qualche mese alle vostre stupide strategie d’evasione, e avete perduto completamente la capacità, un tempo peculiare dell’essere umano, di adattarvi. Durante la pandemia non avete saputo fare altro che desiderare di tornare alla vostra vecchia normalità, incapaci di adattarvi a una nuova normalità, peraltro solo temporanea. E sì, è troppo faticoso rinunciare a un’uscita serale, a una bevuta con gli amici oppure a un viaggio… Nella pratica quotidiana, la fantomatica libertà occidentale si riduce a questo.
Ma a cosa serve parlarne? Non sono mai riuscito a svegliarvi dal vostro torpore e non intendo affatto riprovarci: ognuno per la propria strada. Parlate di amore, di piacere, di felicità, di dolore, ma nelle vostre vite vuote non conoscete che un’illusione dell’amore, del piacere, della felicità, del dolore. Siete diventati parassiti del progresso, del benessere e niente di più.
Mi guardo attorno e vedo una moltitudine di arrivati sulla retta via che conduce all’utile sicuro, alla stabilità, alla sicurezza materiale, «cui l’abitudine degli altri è la coscienza morale, cui è criterio di ragionamento un esempio tratto dalla propria o dall’altrui esperienza, cui è scopo nella vita la vita stessa» [51]. Mi guardo attorno e non vedo che cadaveri, «cadaveri che mangiano, bevono, dormono, parlano, ma non per ciò cessano di essere cadaveri» [52], e che, in quanto tali, generano nati-morti [53].
Nelle vostre condizioni, quando arriva la fine, ciò che termina non è la vita, ma la morte.

NOTE

[48] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 59.

[49] Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, traduzione di Paolo Nori, Feltrinelli, Milano 2014, p. 85.

[50] Ivi, p. 90.

[51] Carlo Michelstaedter, Tolstoi, in Id., Opere, cit., pp. 650-654.

[52] Ibidem.

[53] «Siamo tanti morti affaccendati, che c’illudiamo di fabbricarci la vita.
Ci accoppiamo, un morto e una morta, e crediamo di dar la vita, e diamo la morte… Un altro essere in trappola!
– Qua, caro, qua; comincia a morire, caro, comincia a morire… Piangi, eh? Piangi e sguizzi… Avresti voluto scorrere ancora? Sta’ bonino, caro! Che vuoi farci? Preso, co-a-gu-la-to, fissato… Durerà un pezzetto! Sta’ bonino…» (Luigi Pirandello, La trappola, in Id., Novelle per un anno, Newton Compton editori, Roma 2016).

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